Creare un magazine senza parole è semplice, ma farlo senza immagini sembra un’impresa quasi folle. Eppure c’è chi ha fatto anche questo e, ovviamente, noi di Frab’s, sempre a caccia di riviste particolari e introvabili in Italia, non potevamo esimerci dal proporvi questa rarità che arriva dal Giappone.

Si chiama (RE)PICTURE, a curarlo è Akira Takamiya, mentre l’art direction e il design sono affidati allo studio londinese OK-RM. Quasi libro d'artista, che si tratta di un oggetto affascinante e, in un certo senso, speciale lo si capisce immediatamente. Per la precisione, lo si capisce nell’attimo esatto in cui, con la foga di un bibliofilo che non vede l’ora di sfogliare il suo ultimo tesoro, strappate con veemenza il cellophane che lo avvolge, salvo poi rendervi conto che anche quello è stampato a mano e che contiene indice e colphon in inglese del volume.

 

Una volta aperto colpisce per l’olfatto: sembra di avere tra le mani un ciocco di legno tagliato di fresco. È inebriante, chiudete gli occhi ed è come se foste in un bosco di abeti in un tiepido pomeriggio d’autunno.

Dopo l’olfatto, bisogna concedere diversi minuti al tatto. La copertina in cartoncino presenta l’incavo di indice e colophon in giapponese. Le scritte, però, sono al contrario e potete leggerle (se sapete leggere il giapponese) in rilievo nella seconda di copertina. Un escamotage da niente forse, ma che dà subito il senso della particolarità e della cura del prodotto editoriale che si ha tra le mani.

Seguono diverse pagine bianche e traforate: nove buchi simmetrici guidano sguardo e immaginazione, catturano la luce, proiettano ombre e riempiono uno spazio solo apparentemente vuoto. Alternati tra i fogli “vuoti”, cinque progetti di cinque diversi artisti, sedici pagine ciascuno per raccontare, rigorosamente senza parole, il proprio mondo. A parlare non sono le immagini, ma il linguaggio universale dell’arte.

 

Si inizia con Water Copy del fotografo francese Marvin Leuvrey, una serie fotografica dove elementi organici e sintetici giocano e si fondono tra loro, superano i limiti fisici della fotografia, creano linee, sfocature, frame liquidi che mescolano verità e finzione, in un paesaggio decostruito che sfida l’idea di digitalizzazione della realtà.

L’olandese Jaap Scheeren è l’autore del secondo capitolo di (RE)PICTURE, una serie fotogradica into the wild: abeti, pipistrelli e volpi vengono catturati dall’obiettivo fotografico di Jaap, guardati da varie angolazioni, ogni scatto ci connette al fotografo e alle emozioni.

Un ritratto eclettico del panorama britannico post-industriale è quello che ci restituisce il lavoro di Theo Simpson. Le sue composizioni a più strati sono costituite da immagini d'archivio, manuali di officine e fotografie di paesaggi innescando una riflessione sulla costruzione della memoria collettiva, sul progresso tecnologico e sul rapporto tra uomo e macchina.

Al giapponese Yuji Hamada spetta invece il compito di mostrare il complicato verde urbano in metropoli fin troppo urbanizzate, dove al posto di un albero vero si preferisce installare immaginifici manifesti che mostrano verdi paesaggi. Inevitabile una riflessione, indiretta e solo evocata, sui cambiamenti climatici.

Chiude il volume, prima di altre interminabili pagine bianche, il londinese Mark Borthwick con i suoi paesaggi che, tra un gioco di luce e l’altro, fanno sognare ad occhi aperti. 

I creatori di (RE)PICTURE avrebbero potuto esaurire il magazine in 80 pagine, ma il risultato sarebbe stato completamente diverso. La scelta di utilizzare un’intera risma di carta, per uno spessore di oltre quattro centimetri, è estraniante e geniale al contempo. Lo scopo, dichiarato, di stimolare l’immaginazione oltre le barriere culturali e linguistiche è stato centrato e ogni pagina bianca si riempie grazie alle connessioni e associazioni mentali che ciascuna foto, ciascun lavoro, è in grado di suscitare in ognuno di noi.

Insomma, un lavoro grandioso che esprime pienamente il vero valore della carta stampata.

 

19 ottobre 2019 — Dario Gaspari

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